21 Febbraio 2017 Emanuele Bompan

La lezione di Penelope. Intervista a Erin Meezan

La storia di Ray Anderson, padre dell’ecologismo industriale. E di come ha trasformato la sua azienda manifatturiera in un simbolo dell’economia circolare, in grado oggi di produrre pavimentazioni tessili utilizzando per l’80% materiale riciclato e rigenerato.

Rileggendo il mito della tela di Penelope, si può trovare molto di più di un semplice stratagemma per ingannare i Proci, ma un simbolo della reversibilità e circolarità dei processi. Tutto può essere disfatto e rifatto, usando l’astuzia. Probabilmente quando l’imprenditore americano Ray Anderson pensò per la prima volta a un prodotto di filato per pavimentazioni in tessuto che potesse venire disassemblato e ri-assemblato non aveva in mente questo passaggio dell’Odissea, ma certo agì d’astuzia, comprendendo che il miglior modo per limitare gli impatti ambientali dei processi produttivi era quello di creare prodotti reversibili, rigenerabili. In una parola circolari.

Per questo nel 1994 Ray Anderson ha trasformato Interface Inc., la compagnia americana da lui fondata nel 1973 in Georgia negli Usa, specializzata nella produzione di pavimentazioni tessili di qualità – la moquette per capirci – in un simbolo dell’economia circolare. E molto prima che il termine trovasse una collocazione nel grande mondo della sostenibilità. Ray Anderson (morto nel 2011, nda) non era un ambientalista. Eppure la sua conversione lo ha portato, inconsapevolmente, a essere un simbolo di un altro modo di fare produzione manifatturiera. A diventare il creatore di un nuovo pensiero, l’ecologismo industriale, così ben descritto nel suo libro Confessions of a Radical Industrialist: Profits, People, Purpose – Doing Business by Respecting the Earth (2009).

Materia Rinnovabile ha voluto raccontare la storia di Interface visitando la fabbrica di LaGrange in Georgia e intervistando Erin Meezan, Chief Sustainability Officer di Interface, per capire come si possa trasformare una normale impresa manifatturiera in leader globale dell’economia circolare, ormai citata in qualsiasi testo sul tema. Durante la visita degli impianti di Interface è difficile non rimanere allibiti di fronte all’eleganza dell’Awarehouse (crasi di awareness, consapevolezza e warehouse, fabbrica), il grande spazio espositivo e produttivo dell’azienda. E soprattutto non esserlo davanti ai risultati ottenuti, tutti certificati da enti terzi. Qualche numero: dal 1996 Interface ha ridotto le emissioni di gas climalteranti del 98,5%; tagliato del 64% il fabbisogno di energia (oggi prodotta per l’85% da fonti rinnovabili); abbassato del 98% il consumo idrico; portato a zero il conferimento in discarica dei rifiuti e ridotto lo scarto medio di produzione di un quinto. Complessivamente un modulo di pavimentazione tessile d’Interface contiene un terzo di CO2 in meno rispetto a quindici anni fa. E ora l’obiettivo è portare emissioni e consumi a zero. Niente male.

Già entrando nell’Awarehouse si capisce subito la dedizione alla sostenibilità dell’azienda. Dai pavimenti che producono energia quando calpestati all’ingresso di Energy Floors, agli edifici tutti rigorosamente certificati Leed (Leed è la la certificazione di sostenibilità degli edifici promossa da Green Building Council, nda). Lo showroom e la fabbrica adiacente, così come tutti i 17 impianti di Interface nel mondo, sono costruiti intorno al concetto di recupero della materia. E con l’intenzione di comunicare l’importanza dello sforzo fatto.


Erin Meezan, lei conosce molto bene la storia di Interface. Come è avvenuta questa conversione da impresa energivora a impresa rigenerativa?

“Era il 1994, l’azienda andava a gonfie vele. Successe che durante una gara di appalto per un progetto immobiliare in California, uno dei primi edifici super efficienti, a zero emissioni, Interface non riuscì ad aggiudicarsela: mancavano tutti i requisisti di sostenibilità richiesti. Quando la voce arrivò ai piani alti, Ray Anderson iniziò a domandarsi perché avessimo perso questo lavoro e cosa si poteva fare. Dunque iniziò a organizzarsi: bisognava diventare più sostenibili. Fissò una riunione aziendale per presentare questa nuova vision d’impresa. Ma via via che la data della riunione si avvicinava Ray iniziava a essere preso dal panico. Cosa fare? Quali soluzioni adottare? La folgorazione arrivò quando Ray trovò sulla sua scrivania una copia del libro di Paul Hawken, The Ecology of Commerce, dove si descrivono la crisi della Terra, il declino della biosfera e il ruolo che giocano le grandi corporation. Quando arrivò al capitolo ‘The Death of Birth’ dove si parla di come sia proprio il mondo degli affari, che è parte del problema, la chiave per fermare il declino ambientale, per Ray, che all’epoca aveva 60 anni, fu un’epifania. Talmente scioccante che per molti anni userà proprio questa parola per raccontare la sua conversione. Alla riunione aziendale tutti attendevano una soluzione classica, come ‘ridurre i rifiuti’ o ‘aumentare l’efficienza energetica nella produzione’. Invece lasciò tutti di stucco annunciando: ‘Interface deve raggiungere l’obiettivo zero negli impatti ambientali e lavorare per rigenerare l’ambiente’.

Per fare questo si stabilì un framework di lavoro radicale. Per prima cosa abbiamo cercato sostegno esterno. Il primo a essere coinvolto fu lo stesso Paul Hawken, in seguito venne contattato il gruppo di costruttori dell’edificio in California che aveva rifiutato la proposta di gara e poi David Brower, uno dei fondatori del Sierra Club (una delle più grandi associazioni ambientaliste americane, nda). Con questo eco dream-team Ray impostò il quadro di lavoro: ridurre al minimo i rifiuti, impiegare al 100% energie da fonti rinnovabili, chiudere tutti i cicli tecnologici e della materia, e garantire che tutti i materiali rimangano utilizzati nel sistema produttivo. Il quadro è fondato sull’assunto ‘Come la natura gestirebbe un’impresa?’.”

Dunque la visione circolare è stata presente fin dall’inizio.

“Sì, da subito è stata il cuore della strategia. Si è lavorato sulla capacità di impiegare materiali riciclati, invece che vergini, eliminando il concetto di rifiuto. Una visione entusiasmante, sia da una prospettiva economica, sia ambientale. Una nuova identità che avrebbe definito in maniera univoca la natura di Interface. Il modello circolare era infatti facilmente traducibile anche in fabbrica, mostrando agli operai quanto valeva un chilo di filato scartato e quante tonnellate di scarti di produzione generati ogni giorno potevano diventare nuova risorsa. Una volta capito questo gli impiegati potevano agire di conseguenza, non sprecando e contribuendo a una strategia che migliorava i ricavi.

Inoltre avendo a disposizione una cifra limitata per la sostenibilità, anziché investire subito in impianti solari – che nel 1996 avevano un pessimo payback sull’investimento visti i costi di allora della tecnologia – scegliere di lavorare sul recupero dello scarto favoriva il risparmio di capitale, che poi sarebbe stato utilizzato per installare pannelli fotovoltaici su larga scala e adottare altre misure di sostenibilità.”

Come si riusciva a recuperare la materia per realizzare nuove pavimentazioni tessili?

“Inizialmente per riciclare le pavimentazioni tessili modulari ci siamo concentrati sulla tecnologia per separare il supporto (la parte in lattice di gomma, juta o sintetica) dai filati e quindi poterli inviare ai fornitori per riciclarli. Nasceva così ReEntry, il modello circolare di supply chain di Interface. Il primo passaggio era costituito dalla tecnologia che tritava il supporto (backing in inglese, nda) che poi veniva sciolto insieme ad altro materiale attraverso il sistema CoolBlue™ producendo il nuovo. Ma all’inizio non avevamo dati di mercato, non sapevamo quanto far pagare il prodotto e quali sarebbero stati i margini. Quello di cui eravamo certi era che non si sarebbe dovuto pagare un extra per il riciclo. Siamo andati avanti senza sapere come avrebbe reagito il mercato fidandoci dell’assunto ‘dedicati alla missione’.”

Siete leader di mercato, direi che il mercato ha reagito benissimo. Con ReEntry 2.0 oggi avete moduli prodotti all’80% con materiale riciclato e rigenerato, inclusi i filati.

“Questo risultato lo abbiamo raggiunto in meno di dieci anni. Quando abbiamo iniziato, non avevamo nessuna scelta di filato riciclato dai fornitori. Allora abbiamo convocato Aquafil dall’Italia e Universal in Usa, spiegando loro la nostra nuova vision, al fine di trovare sistemi per recuperare il filato. E Aquafil ha individuato una soluzione: usare le vecchie reti da pesca. L’idea geniale è stata di lanciare con Aquafil e la Zoological Society of London il programma Net-Works, per lavorare con le comunità locali di pescatori, che risentono degli impatti delle reti da pesca, che spesso vengono buttate in mare o perse sui fondali diventando trappole per pesci e delfini. Poi ci siamo concentrati sulla Danajon Bank, nelle Filippine (una delle sei barriere coralline doppie al mondo e uno dei principali ecosistemi marini nell’intero Oceano Pacifico, nda), dove la maggior parte delle persone trae sostentamento dal mare. Grazie ad Aquafil, che processa le reti in Slovenia trasformandole in Econyl, abbiamo creato una filiera – valida anche economicamente – pagando le comunità locali per raccogliere le reti dall’oceano, lavorarle e inviarle ai nostri fornitori. Un modello di business efficace come dimostra il fatto che oggi abbiamo una seconda location in Africa, in Camerun. E in futuro continueremo a focalizzare i nostri sforzi per aumentare i benefici sociali della nostra catena di produzione, non limitandoci solo al riciclo e alla rigenerazione ambientale.”

Circolare, quindi, significa anche sociale?

“Per avere una vera economia circolare non basta che l’azienda riutilizzi i suoi prodotti o quelli dei competitor. Deve avere una strategia per utilizzare qualsiasi materia che non sia sfruttata del tutto, creando occupazione e andando a curare situazioni di disagio ambientale. Come nel caso delle reti di pesca, possiamo creare modelli, community-based, di piccola scala in tutto il mondo, facendo crescere costantemente l’approvvigionamento di materia.”

Interface è un modello. Cosa dite a chi vi chiede consiglio?

“Bisogna mantenere il sistema quanto più chiuso possibile e al di là dei materiali impiegati occorre concentrare lo sforzo di realizzare circolarità su quelli che più vengono impiegati, cercando di capire se si ha la capacità di trasformare la materia. Ma soprattutto occorre mettere bene a fuoco le supply chain dynamics, scoprendo in quali punti si può agire e come coinvolgere i fornitori. Ed essere d’esempio. Noi sapevamo come riciclare il backing, il supporto dei pavimenti: eravamo legittimati agli occhi dei fornitori, conoscevamo quali potevano essere i costi e i problemi legati alla supply chain. E quindi sapevamo consigliarli nel modo migliore.”

C’è un elemento che raramente si considera nei modelli di economia circolare: gli uomini. Creare un ciclo di produzione a ciclo ristretto ha creato occupazione?

“Nei primi anni dell’amministrazione Obama c’era molto interesse sui green jobs: ricordo numerose conversazioni con il governo federale interessato a capire quanti posti di lavoro poteva generare una soluzione come quella adottata da Interface. Con il programma ReEntry abbiamo creato molto lavoro. Non solo, ne abbiamo cambiato la percezione: gli impiegati si sentono più motivati a lavorare in un’impresa che vuole aiutare il pianeta. Alcuni anni fa abbiamo testato attraverso una app la misura di coinvolgimento dello staff nel processo produttivo. Ebbene è risultato che i lavoratori più soddisfatti e positivamente coinvolti erano quelli che lavoravano nella linea di riciclo (recycled backing line), cioè quelli che più di tutti contribuivano alla missione della compagnia. Senza poi considerare il lato umano del progetto Net-works, che ha creato lavoro in aree dove mancava. Nelle Filippine Net-works significa poter mandare i figli a scuola, aver accesso a cure mediche, conservare le barriere coralline.

Ecco un consiglio che mi sento di dare: ‘Abbiate un percorso di sviluppo chiaro, dove influenzare in maniera positiva e diretta la vita delle persone’.”

Essere radicalmente circolari ha costituito un vantaggio sui vostri competitor?

“Indubbiamente. Noi siamo da sempre i produttori di pavimentazioni tessili a uso commerciale sostenibili. Quando è arrivato il sistema di certificazione Leed noi eravamo l’unico prodotto conforme e questo ci ha avvantaggiato. Solo dopo, tanti hanno seguito il nostro modello.”

Per essere un’impresa circolare che tipo di scala e struttura si deve adottare?

“Abbiamo 17 imprese manifatturiere nel mondo che operano in maniera decentralizzata. Uno dei nostri competitor invia tutto il materiale da riciclare in un unica location, negli Usa, per il ri-processamento. Se ciò consente un controllo elevato sulla qualità, è un sistema che ha una grande inefficienza dovuta alla logistica. Noi crediamo che il sistema debba adattarsi a ogni singolo luogo (site-specific), deve essere flessibile, originale. La scala è la parte più interessante della nostra riflessione intorno al concetto di economia circolare. Non serve concentrare tutto in un luogo centralizzato, quanto vedere in ogni luogo quali risorse si possono utilizzare, adattandosi a sistemi differenti. L’India non sono gli Usa, la Cina non è l’Irlanda del Nord (tutti siti di produzione Interface, nda). Si tratta di creare linee di produzione leggere, fluide e mobili. Questa è la nostra sfida. Ed è stato il programma Net-Works che ci ha mostrato come lavorare con piccole comunità e affrontare le problematiche a questa scala.”

Ora puntate all’obiettivo impatto zero, con la vostra Zero Mission®.

“Mancano tre anni, ci stiamo avvicinando molto e continuiamo a chiederci: qual è il prossimo passo da fare? Le prossime sfide sono concentrate su come questa impresa possa servire come forza positiva per fermare il cambiamento climatico e per allentare povertà e diseguaglianza. Non abbiamo fatto ancora abbastanza nel sociale. Certo abbiamo trasmesso i valori dell’economia circolare a oltre 5.000 nostri impiegati in modo che potessero essere applicati anche fuori da Interface. Durante la registrazione di un documentario su Interface, un addetto al nostro impianto di produzione australiano ha detto: ‘Ho parlato [di economia circolare] ai miei genitori, la loro fattoria potrebbe essere organizzata come un ciclo chiuso senza rifiuti. E sono stati subito entusiasti’. Un segno che c’è interesse.

Lo stesso in Irlanda del Nord, dove le imprese sono spinte a non produrre rifiuti da conferire in discarica. Il nostro responsabile locale per la sostenibilità fa in modo che si ricicli tutto. Quando non riesce ad accordarsi con i fornitori trova comunque una soluzione. Ora abbiamo avviato un programma per ‘ambasciatori della sostenibilità’, e faremo in modo che ogni impiegato, ogni operaio possa parteciparvi, in modo che ottengano nuove competenze, nuove conoscenze professionali.”

Da anni state cercando di far funzionare un modello di prodotto-come-servizio (product-as-a-service). Cosa serve per impostare un sistema di vendita così diverso da quella classica basata sul passaggio di proprietà?

“Due cose: aumentare il volume (di prodotto contrattualizzato, nda) ed educare i consumatori a questo modello. E quindi serve trovare un accordo contrattuale che ci permetta di detenere la proprietà sulle pavimentazioni tessili e poterle ritirare a fine vita. Non necessariamente strutturato come un lease, può essere un buy-back o un accordo contrattuale di ritiro obbligato a fine vita. A sostegno potrebbe essere utile una legge federale che vieti alle pavimentazioni di finire in discarica: in Usa sono tra i primi cinque prodotti, per volume, che finiscono in discarica, insieme ai pannolini. La California è stata una dei primi paesi a fare una legge per creare un’infrastruttura di raccolta. E ha avuto un grande successo. Questo ci fa pensare: invece che inviare dalla California alla Georgia il materiale da recuperare, possiamo fare una infrastruttura leggera laggiù che invia direttamente il filato rigenerato e il backing ai fornitori? Ogni ostacolo può diventare un nuovo successo. Siamo fiduciosi di raggiungere l’obiettivo di Zero Mission e di poter lavorare su nuovi prodotti sempre più sostenibili – come TacTile, un sistema di assemblaggio tipo puzzle, che non richiede più colla, con impatti positivi sulla salute e sui consumi di materiali – e su nuovi modelli di business. L’epifania di Ray non è finita con la sua morte. L’azienda continua a portare avanti il suo sogno.”

Paul Hawken ha pubblicato con Edizioni Ambiente Capitalismo naturale (n.e. 2011) e Moltitudine inarrestabile (2009)

www.interfaceglobal.com

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